Forse non è notissimo ai più, ma la storia di Gesualdo da Venosa è davvero curiosa. Principe, insigne compositore e… uxoricida, fu salvato dal suo lignaggio e dallo zio, Carlo Borromeo.
Mi rendo conto che la musica del XVI secolo non sia argomento di scottante attualità. So pure che i madrigali non sono al momento in cima alle hit-parade. Però la vicenda di colui che da molti critici è indicato come il più grande madrigalista della storia è quantomeno intrigante. E, tutto sommato, poco nota. Si chiamava Carlo e apparteneva alla nobile stirpe napoletana dei Gesualdo. Carlo Gesualdo, dunque. Principe di Venosa, conte di Conza e signore di Gesualdo. Passò alla storia (e che storia!) come Gesualdo da Venosa.
Carlo Gesualdo nacque nel 1566 da Fabrizio II e da Geronima Borromeo, sorellastra del celebre arcivescovo milanese. Educato a Napoli, Carlo manifestò un precoce talento musicale, tanto che, non ancora ventenne, pubblicò la sua prima composizione. Pare che fosse anche appassionato cacciatore e può dunque darsi che il matrimonio con Maria d’Avalos non lo interessasse più di quel tanto. Bellissima, sua cugina di primo grado, più anziana di ben sei anni, già vedova, Maria era evidentemente una donna che sapeva il fatto suo.
Dopo la nascita di un figlio, Maria prese a mal tollerare le manie e le ossessioni del marito, che ella non esitava a definire poco attraente. E, quattro anni dopo le nozze, durante una festa, Maria conobbe Fabrizio Carafa, duca di Andria, soprannominato per la sua avvenenza l’Arcangelo. Belli entrambi, ma… entrambi sposati. Poco male. Iniziarono una relazione clandestina e travolgente, che fu la loro rovina. Sorpresi da Carlo Gesualdo, furono da questi assassinati. Leggenda vuole che lo spirito dei due ancora vaghi per le stanze di Palazzo Sansevero, a Napoli. Insomma, una versione partenopea di Paolo e Francesca, peraltro ancora molto nota in città.
Carlo si rifugiò nella fortezza avita di Gesualdo. Non tanto per sfuggire alla giustizia (e in effetti la sua posizione fu presto archiviata, visto che si trattava di delitto d’onore), quanto per sfuggire alla vendetta che famiglie potenti come i Carafa e i d’Avalos avrebbero quasi sicuramente messo in atto. Lasciato il castello di Gesualdo, Carlo arrivò sino a Ferrara, dove convolò a nozze con Eleonora d’Este. Anche questo matrimonio di interesse, ma sarebbe complicato spiegare in dettaglio il perché: è una lunga storia di diritto di successione fra lo Stato della Chiesa e gli Estensi.
Comunque, Carlo e la sposa partirono immediatamente per il viaggio di nozze a Venezia, dalla quale i due salparono per una romantica crociera. In realtà non sappiamo se e quanto la luna di miele sia stata romantica; più prosaicamente i novelli sposi dovevano raggiungere Barletta, onde proseguire poi per Gesualdo. Dove rimasero per pochi mesi, visto che presto rientrarono a Ferrara.
Carlo componeva e cacciava, anche se non gli riuscì di farsi benvolere dalla locale Accademia musicale. Al punto tale che, nonostante la nascita di un erede, il principe decise di rientrare definitivamente nella sua Gesualdo, dove aveva fatto trasformare l’antica fortezza in una comoda dimora. Deciso ad emulare quanto aveva visto e apprezzato nel Nord Italia, Carlo creò una corte di musicisti e letterati e dotò il castello di un teatro e di una stamperia. Il primo per rappresentare le sue opere, la seconda per assicurar loro gloria eterna. Trascorse così diciassette anni, durante i quali la corte gesualdina divenne un autentico faro nella cultura del tempo: basti dire che Torquato Tasso fu spesso ospite del principe di Venosa. Gesualdo da Venosa morì nel 1613, a 47 anni di età.
Ma già prima di spirare aveva pensato al suo riposo eterno, facendo realizzare la cosiddetta “Pala del perdono”, che ancora si può ammirare nella chiesa di Santa Maria delle Grazie. Il quadro mostra Carlo inginocchiato nell’atto di chiedere perdono a Gesù per il duplice omicidio. Intercedono per lui la Vergine, S. Michele, S. Francesco, S. Domenico, S. Caterina, la Maddalena e, naturalmente, lo zio Carlo Borromeo. L’arcivescovo è rappresentato come prelato e non ancora come santo e ciò è ovvio: il dipinto risale al 1609, mentre il Borromeo fu canonizzato solo l’anno seguente. E’ però curioso come il celebre zio occupi un ruolo importante nella pala: cingendo la spalla del nipote penitente, guarda direttamente il Cristo suggerendo, più che implorando, il perdono. Chiaro sintomo, questo, dell’importanza politica e religiosa che tutti attribuivano a Carlo Borromeo. E, anche, della cieca fiducia che Gesualdo da Venosa riponeva nell’illustre parente per la salvaguardia della sua vita ultraterrena.
P.s. Fra gli altri, anche il dotto Franco Battiato s’è fatto ammaliare dalla figura di Gesualdo da Venosa. Il testo non è facilissimo, ma di certo molto poetico.