Ieri la cattedrale di Notre Dame è stata divorata da un incendio. Non mi interessa disquisire sulle cause, sui ritardi né sui complotti. Nemmeno ho a cuore la diatriba fra i puristi del Medioevo, che sostengono che in fondo non s’è perso poi granché, e chi invece ritiene il danno inestimabile anche dal punto di vista artistico. Vorrei solo mettervi a parte della mia riflessione mattutina, che riguarda più il modo con cui ci si rapporta al mondo.
Ho il privilegio di fare un lavoro bellissimo. Viaggio, visito luoghi meravigliosi, mi occupo di arte, storia e cultura. Non saprei nemmeno dire quante volte ho visto la cattedrale di Notre Dame, a Parigi. La prima volta avevo 18 anni appena compiuti, ora ne ho più del doppio… in mezzo tante visite. Alcune emozionanti, altre più frettolose. Vi sono state occasioni in cui la folla mi ha disturbata, ma ricordo anche di aver assistito a una celebrazione dell’Eucarestia molto intensa. Insomma: da ieri molti ricordi fanno capolino nella mia mente.
La prima immagine a cui ho pensato sono state le vetrate. Di una poesia struggente. Quei vetri colorati sapientemente giustapposti mi catturavano ad ogni visita. I riflessi blu e gialli che danzavano sul pavimento, i fiotti di luce che si insinuavano fra le finestre, le storie che si potevano riconoscere e la potenza teologica dei rosoni. Per me la cattedrale Notre Dame è sempre stata questo. Il Sacro che si va visibile attraverso lo sfavillio di lastre di vetro. Anche nei momenti di grande ressa, o quando mi sono trovata a che fare con un gruppo difficile da gestire, sono sempre riuscita a ritagliarmi qualche istante e un po’ di spazio per lasciarmi abbacinare dalle vetrate.
Più di una volta ho desiderato avere a disposizione un ponteggio o una sorta di ascensore per avvicinarmi e guardare tutto da vicino. Guardare i volti dei personaggi rappresentati, capire i loro gesti, interpretare le storie. Sempre mi sono chiesta il perché di tale minuzia, che per i visitatori è praticamente invisibile. Tanto più che è assai probabile che nel passato gli uomini vedessero peggio che al giorno d’oggi, visto che le malattie non erano facilmente curabili e gli strumenti ottici erano di certo più rudimentali. Quindi perché? Ancora non lo so esattamente, mi piace pensare che si trattasse di impegno. Si faceva al meglio che si poteva, senza la necessità che il grande pubblico guardasse, ammirasse e approvasse. Chi entrava in chiesa non entrava in un’opera d’arte, ma in un tempio. E lì tutto deve tendere al Divino, dunque alla perfezione.
Perdonate le mie misere elucubrazioni. Andiamo avanti con i miei pensieri mattutini. Dopo le immagini delle vetrate è arrivata la riflessione: ho pochissime (e brutte!) fotografie delle vetrate di Notre Dame. Veramente anche della cattedrale in generale. E, da ieri in poi, quei capolavori non li vedrò mai più. E ho poche immagini non solo perché la gran parte delle volte stavo lavorando e dunque ero presa da altre questioni. Questa è un’ottima scusa. Più che altro, ogni volta che ci mettevo piede lo facevo con la sicurezza di chi in quel luogo ci sarebbe tornata e lo avrebbe ritrovato identico. Ho sempre pensato che ci sarebbe stata un’altra volta più propizia, più rilassata, più adatta. Ho sempre dato per scontato il fatto che Notre Dame sarebbe rimasta lì (per me).
Invece no. Ho perso l’occasione. Non tanto di avere immagini migliori, perché sono e resto una fotografa mediocre. Soprattutto, ho perso l’occasione di vivere quella particolare visita, quel dato istante. Indaffarata e superficiale. Ci sentiamo eterni, crediamo che in futuro avremo il tempo di fare le cose che oggi rimandiamo. Tante volte sui social media si leggono quelle frasi legate all’importanza di dimostrare il proprio affetto ora perché poi potrebbe essere tardi. Mi hanno sempre lasciata più o meno indifferente. Non perché non siano vere, ma perché, alla fine, la vita quotidiana è un’altra cosa.
Ma la mia vita quotidiana è Notre Dame. E anche il Colosseo, il Museo del Prado e la Cupola del Reichstag. Il mio giorno per giorno è fatto delle persone a cui cerco di trasmettere passione. E talvolta la passione si perde in mille inutili cavilli. Credo non farò più foto di quante non ne abbia scattate finora. Vorrei però, almeno, imparare a vivere ciascuna esperienza come un dono unico e (forse) irripetibile. Si arriva a riflessioni del genere dopo un lutto, una separazione, un addio. Io ci arrivo attraverso l’arte. Perché credo che l’arte, nella sua assoluta inutilità, serva proprio a questo: a farci essere uomini.