Curioso destino quello di Ludovico Sforza, detto il Moro. La sua parabola politica e personale terminò infatti assai male, passando dalla posizione di signore incontrastato delle vicende italiane a quella (ben più scomoda) di recluso nel castello di Loches, in Francia. Dove lasciò un segno tangibile del suo soggiorno forzato.
Ludovico il Moro fu signore di Milano. E alla città e alla Lombardia tutta diede lustro. Non intendo di certo raccontarvi le sue gesta: basta fare una breve ricerca sulla rete per avere ogni informazione a suo riguardo. E’ però indubitabile che se ai giorni nostri turisti di ogni dove prenotano con largo anticipo una visita al Cenacolo Vinciano, una parte del merito è da attribuire proprio a Ludovico Sforza, che fu mecenate di Leonardo e di numerosi altri artisti. E se in Lombardia l’industria della seta ha ancora una solida nomea, lo si deve proprio al Moro, che promosse nel suo Ducato la produzione del pregiato materiale. I più curiosi sapranno di certo che, con buona probabilità, il suo soprannome deriva non tanto dalla capigliatura corvina quanto dall’aver introdotto la coltura del gelso, indispensabile per l’allevamento dei bachi da seta. Gelso che in dialetto milanese si chiama “moro” o “morone”.
Ma, come spesso succede, a una fulgida ascesa corrispose una rapida discesa, che si concluse nell’aprile del 1500, quando le truppe francesi lo catturarono nel castello di Novara. Il re Luigi XII lo fece tradurre in Francia, prima non lontano da Lione e poi nei pressi di Bourges, sino a giungere a Loches nel 1504.
E’ una fortezza severa quella del borgo sulle rive dell’Indre, collocata nella parte più alta del paese e dotata di mura massicce. Il castello è attestato sin dal V secolo e fu teatro di scontri all’epoca di Pipino il Breve, padre di Carlo Magno. Arrivando, incute una certa soggezione, sia per via dell’importanza della sua storia che per il profilo dell’edificio. Senza contare che la salita al maniero è piuttosto impervia, quindi non è raro che alla soggezione si assommi un ben meno nobile respiro ansimante. Però ne vale la pena. Parola di Guida Curiosa.
Ma torniamo a Ludovico, a cui non fu fatto mancare nulla. E lo dico con cognizione di causa perché la visita del castello comprende, oltre alle corti e alle torri, anche una panoramica nelle prigioni, utilizzate per molti secoli. Anguste, buie e umide, com’è facile immaginarsi. Allo Sforza, però, fu assegnata una cella ben diversa, per quanto assai oscura, visto che in realtà non è dotata di finestre. La luce era comunque assicurata dal lusso delle candele, costantemente fornite al prigioniero, e l’ambiente era ammobiliato e riscaldato. Ludovico aveva inoltre il permesso di uscirne talvolta per recarsi a fare una passeggiata nel centro di Loches, sebbene sempre scortato dai suoi carcerieri. Ma soprattutto, e questa è una curiosità notevole, al Moro venivano forniti dei colori, con i quali si cimentava nell’arte della pittura.
Nonostante i danni prodotti dal tempo e dalla Rivoluzione Francese, le pitture murali sono ancora oggi ben visibili. Molto particolari nel loro genere e difficilmente interpretabili. Non figure umane, per quanto magari stilizzate, ma segni, lettere e stelline. D’altro canto, è come se Ludovico non si fosse abbandonato all’estro del momento, ma avesse seguito un ben preciso schema pittorico, visto che tutta la stanza è interessata da una decorazione omogenea, simmetrica e studiata.
Lo Sforza firmò la sua opera con le parole Celui qui n’est pas content. Facile immaginare che non fosse contento. Rimase detenuto per 8 anni e, pare, morì il giorno prima della sua definitiva scarcerazione. Ciononostante ebbe la forza (e l’opportunità) di non privarsi della possibilità di esprimersi, per quanto il suo talento fosse tutto da dimostrare. Lontani erano i giorni di Leonardo e della Dama con l’ermellino (che era poi la sua amante Cecilia Gallerani). Lontani erano i giorni della gloria. Ma non per questo colui che fu un grandissimo mecenate si dimenticò dell’arte, del bello e dello spirito. Perché anche se era prigioniero e politicamente finito, mi piace pensare che una parte di lui non avesse mai perso l’antica vivacità e il guizzo sicuro.