Qualche settimana fa vi ho parlato dei viaggi di Edwige Mrozowska, donna indomita ed esploratrice coraggiosa. Oggi vi voglio raccontare l’epopea di un’altra incredibile viaggiatrice, Alexandra David-Néel, invitandovi alla lettura di Viaggio di una parigina a Lhasa.

Quella che Alexandra David-Néel definisce ‘gita’ è una vera impresa storica: questa donna piccola, apparentemente fragile (e non più giovanissima) è stata la prima donna europea ad entrare a Lhasa, città all’epoca proibita agli stranieri. È l’autunno del 1923 quando Alexandra intraprende un cammino difficile, sopportando fame, sete, freddo, superando gli imprevisti più vari e continui ostacoli.
Per intraprendere questo fantastico cammino attraverso un Tibet ancora incontaminato, la nostra eroina deve travestirsi. Passare inosservata è fondamentale. Ha un unico e giovanissimo compagno di viaggio, il lama (un sacerdote buddista) Aphur Yongden. Il ragazzo ha solo quindici anni ma sarà un indispensabile alleato in questa e in molte altre occasioni (tanto che, nel 1929, Alexandra lo adotterà). I due, abbigliati come mendicanti, avvolti nelle loro guarnacche, con ai piedi gli stivali tipici dei pastori tibetani, portando sulle spalle ciò che occorre (una piccola tenda di cotone, la ciotola, poche provviste che consentono la loro sopravvivenza, mattonelle pressate di té, tsampa, burro di yak) camminano per mesi attraverso gli altipiani tibetani.
Un viaggio folle e improvvisato? Assolutamente no. Alexandra brama da sempre la libertà e conoscere il mondo. È una grandissima viaggiatrice: giovanissima ha visitato la Spagna, la Svizzera e l’Inghilterra. Conosce l’Africa settentrionale dove ha incontrato il marito Philippe Néel, viaggia in India, in Giappone, in Cina… Solo le guerre mondiali sembrano rallentarla. Questo costante anelito all’esplorazione non è solo desiderio di libertà, Alexandra è una studiosa attenta e precisa delle culture e delle filosofie orientali (di cui diventerà una nota divulgatrice).
Raccoglievo le manifestazioni del pensiero umano, cercando di penetrare il mistero del mondo e di calmare la paura davanti alla sofferenza e alla morte.
(Il paese dei briganti gentiluomini)
Il suo travestimento funziona proprio perché la nostra viaggiatrice già da anni studia il sanscrito e il tibetano per affrontare direttamente i testi sacri (risiede per anni in importanti monasteri nella regione himalayana del Sikkim, diviene allieva di Lama riconosciuti che la iniziano a pratiche di meditazione e arriva persino a incontrare il XIII Dalai Lama!). L’Europa, è evidente, sta stretta a questa donna, capace di abbandonare il proprio mondo, con i suoi ruoli e le sue finzioni, ma anche le sue certezze e comodità, per andare a cercare una dimensione spirituale altra.
Viaggio di una parigina a Lhasa è la cronaca di questa coraggiosa ricerca: il racconto è avventuroso ma è soprattutto ‘profondo’. Un appassionante mix di rocambolesche vicende e di riflessioni esistenziali, legate da interessanti considerazioni di geopolitica. Nei primi decenni del Novecento il Tibet era stato oggetto di controversie tra la Gran Bretagna, decisa a impedire l’espansione russa nella zona e ad affermare il proprio interesse economico, e la Cina, a cui verrà riconosciuta una forma di protettorato. Per questo motivo il Tibet costituiva un territorio proibito al quale era possibile accedere solo provvisti di permessi concessi dall’autorità britannica. Alexandra viene più volte invitata a lasciare il Tibet dalla implacabile sorveglianza inglese. Naturalmente, nemmeno questo la dissuade dal suo proposito di attraversare le grandi distese himalayane, coprendo migliaia di chilometri.
Il viaggio verso Lhasa comincia dal Monastero di Kumbum. Alexandra vuole tentare un lungo itinerario, da nord a sud, che costeggi la regione di frontiera tra Cina e Tibet, fino a incontrare le strade percorse dalle carovane che dal Sechuan giungono alla città santa. Dalle puntuali descrizioni delle disavventure affrontate, alle prese con una natura meravigliosa e selvaggia, emerge il ritratto di una donna veramente singolare, estremamente coraggiosa e autorevole, equilibrata, capace di guardare con occhio disincantato ma pietoso alla varietà delle persone che incontra, soprattutto mossa da un’insaziabile curiosità per quanto vi è di bello e interessante.
Un primo viaggio fallimentare (raccontato in un altro splendido testo, Il paese dei briganti gentiluomini) l’ha costretta a rinunciare a qualunque comodità. Se vuole entrare nella città santa dovrà diventare invisibile, dovrà confondersi con le migliaia di pellegrini, di mendicanti che ogni anno la visitano. Ora, da autentici ardjopa, pellegrini che viaggiano a piedi carichi dei propri bagagli, Alexandra e Yongden vanno mendicando un piatto di minestra e un cantuccio dove dormire, in cucine mai lavate, vicino al focolare, spesso non lontano dalla famiglia che li accoglie. Questo permette loro di entrare in contatto con un mondo legato a bisogni essenziali, ricco di credenze e di superstizioni, che si palesa spontaneamente e senza veli. Il cammino, che durerà quattro mesi, sarà lungo duemila chilometri e incredibilmente ricco di esperienze.
Il mio vestito semplice di bisognosa devota mi avrebbe permesso di osservare una quantità di dettagli inaccessibili ai viaggiatori occidentali e persino ai tibetani delle classi più elevate. Alle conoscenze già acquisite tra i letterati del Tibet, avrei potuto aggiungerne altre, non meno interessanti, raccolte a caso in mezzo alle classi popolari.
Alexandra per scurire la sua carnagione e non essere riconosciuta come occidentale si cosparge di terra e polvere di cacao. Con il suo sodale viaggiano di notte per non attirare l’attenzione, dormono sotto una sottile tenda di cotone, rischiano di annegare guadando un fiume appesi a una corda… Coraggio o incoscienza? Difficile dirlo. Alexandra e Yongden si muovono in ambienti naturali di inesprimibile bellezza ma estremamente pericolosi. Dimostrano un’incredibile resistenza fisica che consente loro di affrontare il terribile inverno himalayano, di camminare salendo montagne altissime, nella neve, per 14 o 16 ore, senza mangiare nulla per giorni interi. Quando ogni provvista è terminata e la situazione sembra disperata, Alexandra e il suo compagno cuociono nell’acqua persino i ritagli di cuoio con cui hanno aggiustato le loro calzature. Tutto merito di coraggio e sangue freddo? Chissà…
Nel procedere del racconto ci sono riferimenti ad accadimenti difficilmente giustificabili con la sola ragione, ma che trovano facile spiegazione nell’universo di saperi e credenze del Tibet. Yongden è testimone o egli stesso attore di fenomeni di preveggenza, Alexandra riesce ad accendere un fuoco, assolutamente necessario alla sopravvivenza, ricorrendo al tumo reskian, l’arte di aumentare il calore del corpo…
L’Oriente – soprattutto il Tibet – è terra del mistero e degli avvenimenti strani. Se solo si è in grado di guardare, ascoltare e osservare con attenzione e a lungo, vi si scopre tutto un mondo al di là di quello che siamo abituati a considerare come l’unico reale, forse perché non analizziamo abbastanza minuziosamente i fenomeni dai quali è nato e non risaliamo abbastanza nel passato alla concatenazione delle cause che li determinano.
Persino l’ingresso a Lhasa sembra frutto di una sorta di strano prodigio: improvvisamente si alza una tempesta di sabbia che nasconde il volto della viandante, quasi a volerne proteggere l’identità,
senza che nessuno potesse sospettare che, per la prima volta da che mondo esiste, una donna straniera ha contemplato la città proibita.
Affascinante, vero? Che questo sia stato un prodigio o meno, un fatto è certo: Alexandra David-Néel è stata una donna eccezionale, capace di non farsi mai condizionare dalla società del suo tempo, di ignorare le regole e le attese del suo mondo per seguire le sue aspirazioni e le sue curiosità intellettuali.
Alexandra David-Néel, Viaggio di una parigina a Lhasa, Voland, Roma 2003